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ELFI - Sertan Twilight

Ultimo Aggiornamento: 22/04/2004 18:03
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22/04/2004 18:03
 
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Il giorno della nascita del signorino Sertan tutta la casata era in festa: dopo lunghi decenni di attesa, finalmente i Twilight avevano un discendente.
La notizia pian piano si diffuse a Tur-Miniel e nel palazzo della famiglia si avvicendarono i nobili elfici, desiderosi di portare i loro doni al nuovo nato e di vedere il piccolo volto del primogenito di Alanos Twilight e Luthien Vonsen.
Può sembrare strana tutta questa agitazione in onore di un frugoletto, la cui unica azione degna di nota finora fu quella di emettere il suo primo stridulo pianto tra le braccia della levatrice, ma questo piccolo elfo era il primo e unico erede di una delle famiglie nobili più in vista di Elea. Le origini della casata dei Twilight infatti si fondono con il mito: voci addirittura narrano che fu uno dei primi dieci elfi creati dalla Grande Madre a darle vita, ma con buona probabilità si tratta solo di voci infondate, chiacchiere messe in circolazione con lo scopo di aumentare il prestigio e il buon nome di cui la famiglia gode.
Sertan crebbe quindi in seno a una delle famiglie elfiche più ricche e potenti di Elea: Lord Alanos Twilight siedeva tra i membri del Consiglio dei Nobili e la casata poteva contare su vasti possedimenti terrieri.
Viziato e coccolato, gustando tutti i dolci frutti che la sua posizione privilegiata gli offriva, Sertan crebbe tra gli agi, giocando tra i corridoi riccamente arredati del palazzo di Tur-miniel o arrampicandosi su quei grandi alberi che crescevano nei parchi della tenuta fuori città, beato in quella che credeva sarebbe stata una spensierata eternità.

Ma le stagioni passavano rapidamente e Sertan cominciò ad aprire gli occhi su tutto quello che lo circondava.
I Twilight fin dalle loro origini si erano interessati all’arte, alla pittura e alla poesia: molti di loro si erano dilettati componendo sublimi versi o dipingendo magnifiche tele. Persino coloro non erano dotati di grande talento artistico erano tuttavia attratti dalla bellezza come le falene lo sono dalla fiamma di un falò estivo.
Nel corso dei secoli la loro dimora a Tur-miniel si era quindi impreziosita di capolavori di ogni genere: statue aggraziate e quadri maestosi la decoravano, mentre dalla biblioteca decine di libri cantavano le lodi di Elea e della Grande Madre Diira, la somma dea che fece a noi, i suoi prescelti, il più ricco e bello dei doni, quello dell’eterna giovinezza.
Il giovane elfo era diventato abbastanza grande da accorgersi di tutto questo e da apprezzare le bellezze che la sua dimora era in grado di offrirgli… però più delle ore passate leggendo versi, più delle ora passate dipingendo suggestive vedute delle terre di Tur-miniel, Sertan amava passeggiare per i lunghi corridoi adorni di statue, specialmente quando la luce del crepuscolo filtrava dalle finestre e proiettava magiche ombre sul marmo finemente scolpito. Vi erano statue di ogni forma e fattura, ma fra tutte lui ne prediligeva una, quella di un elfo dal volto nobile e fiero, che, vestito di un’armatura riccamente decorata, guardava sorridente l’orizzonte mentre con le mani accarezzava il pomello della sua spada.
Sul piedistallo, inciso in semplici caratteri elfici c’era scritto il suo nome: “Elros Twilight”, il nome di un guerriero che combattè al fianco di Aumel, il Primo Re e diede la sua vita proteggendolo nella notte in cui comprese come sconfiggere la prima armata del Caos.
Sertan era affascinato dalla figura di quest’elfo che la casata considerava come il suo più grande eroe.
Ogni volta che si soffermava davanti alla sua statua la sua mente e i suoi pensieri si perdevano tra grandi battaglie e nobili imprese… e allo stesso tempo si rammaricavano degli scarsi progressi ottenuti nelle lezioni di scherma con il maestro Felanor.
Se da un lato quindi questa statua evocava in lui avventurosi pensieri da un altro lo deprimeva: l’unica cosa che si sentiva di saper fare decentemente era scrivere versi e questo lo faceva sentire uno spettatore, costretto in eterno a osservare le creazioni e le imprese degli altri, senza riuscire a prendere appieno il controllo della sua vita e delle sue capacità.

Così, man mano che il tempo passava, Sertan, per distrarsi e trovare ispirazione per le sue poesie, prese l’abitudine di fare lunghe cavalcate nelle terre circostanti: la natura, con i suoi suoni, i suoi colori e i suoi odori, riusciva a distrarlo dai tristi pensieri e il giovane sempre più spesso si ritrovava seduto su una collina, intento ad ammirare il paesaggio circostante o ad osservare gli umani che lavoravano nei campi… e questi ultimi, in particolare, attiravano la sua attenzione.
Gli uomini vivevano una vita breve, brevissima se paragonata a quella di un elfo, ma incredibilmente intensa, come quella di un fuoco che splende vigoroso, ma che finisce per consumare rapidamente tutta la legna che gli rimane da ardere.
L’elfo era affascinato dall’osservarli, e ogni tanto mentre parlava con loro gli sembrava quasi di poterne vedere la pelle invecchiare, le loro mani farsi scarne e nodose, le ossa piegarsi sotto l’inclemente fardello del tempo.
Spesso ci si sente macabramente attratti da ciò che ci spaventa o disgusta e questo era l’atteggiamento di Sertan nei confronti della decadenza umana. Allo stesso tempo però era stupito dalla loro vitalità e dalla forza e dalla determinazione che erano in grado di mostrare attraverso una continua ricerca del potere: una continua competizione a discapito dei propri simili o delle forme di vita che consideravano inferiori. Era come se fossero pervasi da un’energia troppo grande per essere contenuta dai loro deboli corpi e questo col tempo li portasse a avvizzire e morire, proprio come una pianta a cui un giardiniere inesperto somministra troppa acqua.
Questa era la teoria che Sertan si era fatto nel corso degli anni… e di anni nel frattempo ne erano passati parecchi, più di 180 anni umani dalla sua nascita.

Il giovane elfo era ormai diventato un adulto e aveva cominciato ad aiutare suo padre con i problemi e gli affari della casata.
Spesso in primavera lo accompagnava nei viaggi che faceva per i loro possedimenti e che si spingevano ben al di fuori dei confini dell’isola di Tur-Miniel.
I due elfi, accompagnati da una cospicua scorta, facevano visita anche a diversi villaggi umani collocati nelle loro terre, occasione che Sertan sfruttava per osservare ancor più da vicino la vita degli uomini. Ma tra tutti i villaggi che visitavano uno in particolare era destinato a entrare prepotentemente nel destino di Sertan. Si trattava di un piccolo villaggio situato nelle pianure di Morga, dal nome di Naerie.

Quell’anno gli elfi vi arrivarono in una calda giornata primaverile e, come spesso accadeva, vennero accolti calorosamente: le donne si esibivano in una profusione di inchini e i bambini correvano festanti accanto ai loro cavalli. Il piccolo corteo venne poi accolto dal capo villaggio, e, dopo una breve cerimonia, una bambina dagli splendenti occhi verdi depose delle corone di fiori sulla testa degli elfi.
Accadeva spesso che i bambini fossero spronati a compiere gesti simili per manifestare accoglienza agli elfi, ma quella bambina di 7, o forse 8 anni aveva una grazia per nulla tipica della sua razza e Sertan e i suoi compagni non poterono fare a meno di notarlo.

Il giorno seguente, dopo aver rinnovato gli accordi commerciali con il capo villaggio, gli elfi partirono e, come da tradizione, lasciarono al villaggio dei doni e una botte di pregiato vino elfico, come simbolo di unione, stima e collaborazione tra le due razze.
Ogni anno, in estate, la storia si ripeteva e più gli anni passavano più la brama di Sertan di visitare il villaggio di Naerie cresceva inspiegabilmente.
Passarono 10 anni, e quella che un tempo era stata una bambina dai graziosi occhi verdi era ormai diventata una ragazza dotata di una bellezza rara tra gli uomini. I suoi morbidi riccioli neri incorniciavano un volto dai lineamenti nobili e delicati, mentre i suoi occhi risplendevano come gioielli incastonati di smeraldi.
Questa donna ogni anno affascinava Sertan sempre più, nonostante lui negasse ripetutamente di esserne innamorato, soprattutto quando parlava con me o con la sua famiglia, tanto da arrivare al punto di non volercene nemmeno rivelare il nome.
Ma, nonostante le sue parole, era evidentemente attratto da quella bellezza così mutevole, dalla pienezza di una vita che, come un fiume in piena, esplodeva in quel corpo, e che altrettanto rapidamente faceva il suo decorso.
Ogni estate lei era diversa, ora bambina, ora ragazza, ora donna.

Le visite di Sertan al villaggio si fecero sempre più frequenti e rapidamente passarono altri 20 anni; Sertan stava per compiere 210 anni, mentre l’umana ne aveva ormai quasi 40.
Era ormai quasi estate, e Sertan trovandosi per caso in uno dei possedimenti della sua famiglia vicino alle pianure di Morga, decise di recarsi a Naerie per andarla a trovare.
Sellati dei buoni cavalli e radunata una piccola scorta di quattro elfi, compreso Felanor, il suo maestro di scherma, l’elfo si mise in viaggio; in pochi giorni il piccolo gruppo raggiunse il villaggio, dove li attendeva però un’amara sorpresa.
Dalle capanne di legno, appena visibili dall’alto della collina su cui gli elfi si trovavano, nere volute di fumo si innalzavano verso il cielo che volgeva al tramonto.
Gli elfi videro le fiamme e spronarono i cavalli al galoppo in direzione di quello che credevano essere un incendio, ma una volta giunti sul posto si accorsero che ciò che si ritrovavano ad affrontare era cento volte più terribile del fuoco.
Una banda di uomini vestiti di rosso aveva fatto irruzione in città, seminando il panico tra la popolazione; il nero simbolo che portavano sul petto e le loro furiose grida di battaglia non lasciavano nessun dubbio sulla loro identità: erano truppe del Caos, antichi nemici che gli elfi non si aspettavano di dover fronteggiare una seconda volta.
Negli ultimi tempi erano arrivate voci a Tur-miniel su quello che sembrava un ridestarsi delle orde caotiche, ma gli elfi avevano liquidato rapidamente questi infondati timori, giudicandoli semplici attacchi di briganti, probabilmente spinti dalla voglia di emulare qualcosa di troppo più grande di loro.
Ma ora la ferocia e la sete di distruzione di fronte alla quale si trovarono Sertan e la sua scorta non lasciava spazio a illusioni, e lo stupore nel vedere un seppur piccolo gruppo di caotici spintosi fino all’interno delle pianure di Morga, così lontano dalle terre in cui gli elfi li consideravano per sempre reclusi, fu enorme. Circa cinquanta uomini avevano marciato sul villaggio e ora si erano sparpagliati per le vie , uccidendo qualsiasi cosa si trovassero di fronte, non facendo differenze tra donne, bambini, o uomini che, armati solo delle loro falci e dei loro picconi, cercavano di difendere la vita dei propri cari.

Sertan rimase impietrito davanti a questo spettacolo, nemmeno nei suoi peggiori incubi aveva visto così tanta gioia negli occhi di chi portava morte e distruzione ai propri fratelli.
Rapidamente gli elfi si resero conto che il villaggio era ormai spacciato: gli abitanti non erano in grado di opporre la minima resistenza alla furia che li aveva colpiti, e loro cinque non erano certamente in grado di affrontare da soli cinquanta guerrieri.
Ma mentre Felanor, resosi conto della loro impotenza, ordinava ai suoi compagni di ritirarsi, Sertan, qualche decina di metri davanti a se, vide un uomo gravemente ferito che si trascinava lentamente, in un disperato tentativo di fuga. Un caotico con in pugno una spada insanguinata lo seguiva a breve distanza, gustandosi ogni singolo momento di dolore e agonia della sua vittima, prima di vibrarle il colpo fatale: era talmente preso dal suo sadico divertimento da non accorgersi della presenza degli elfi.
Sertan, smarrito nell’orrore di quella visione, sguainò la spada senza rendersene conto e spronò il suo cavallo al galoppo.
Quando il soldato del caos si voltò, allertato del rumore degli zoccoli del cavallo, era ormai troppo tardi per evitare la lama che rapidamente stava calando su di lui. Cadde a terra, mortalmente ferito, ma prima di morire lanciò all’elfo uno sguardo carico d’odio, maledicendo con il suo ultimo respiro la sua razza e la dea che li creò.
Nel frattempo anche l’abitante del villaggio, che ora giaceva in una pozza di sangue, stava per morire a causa delle profonde ferite, e quando Sertan cercò il suo sguardo trovò odio anche lì: odio per una razza di cui gli uomini si fidavano, odio per una razza che però non era riuscita a proteggerli.
L’elfo fù costretto a distogliere lo sguardo, turbato da ciò che aveva visto negli occhi dei due uomini e quando tornò ad alzare la testa per poco non cadde da cavallo per lo spavento. Un orco, alto più di due metri, si era avvicinato approfittando della sua distrazione di Sertan e già pregustava il momento in cui lo avrebbe ridotto in poltiglia, colpendolo con la pesante mazza che impugnava con entrambe le mani.
Sertan istintivamente sollevò la spada per difendersi dal colpo, ma la mazza mandò in frantumi il sottile acciaio elfico, creato per essere un prezioso ornamento e inadatto a sostenere la violenza di una battaglia.
La lama però riuscì almeno in parte ad attutire l’impatto ed a salvare la vita all’elfo, nonostante questo Sertan, colpito con forza, svenne, e il suo corpo, disarcionato da cavallo, colpì con violenza il suolo.
Nello stesso istante, quattro diverse frecce, trafissero con precisione mortale la gola del bestione.

Sertan si risvegliò una settimana dopo, in un comodo letto, al sicuro tra le mura di una delle tenute della sua famiglia. Aveva un braccio e diverse costole fratturate, ma le eccellenti abilità dei guaritori elfici gli avevano salvato la vita e ben presto lo avrebbero rimesso in forma. Nonostante le sue condizioni di salute, al suo risveglio dovette però sorbirsi gli aspri rimproveri del maestro Felanor, che, furente, lo sgridò a lungo per il comportamento imprudente e sconsiderato che aveva tenuto a Naerie.
Tuttavia quei rimproveri furono ben poca cosa rispetto a quello a cui Sertan aveva assistito e da cui era rimasto profondamente scosso: aveva visto la violenza e la malvagità di cui sono capaci gli uomini, membri della stessa razza rivoltarsi gli uni contro gli altri e uccidersi a vicenda per il solo piacere di farlo, e soprattutto aveva visto l’odio che provavano per gli elfi, un odio sopito che covava nel profondo dei loro animi ma che era costantemente alimentato dall’invidia, invidia verso una razza superiore, invidia di una vita immortale.
A tutto questo si aggiungeva l’angosciante pensiero di quell’umana: molto probabilmente ora lei giaceva morta sotto le macerie annerite di una casa bruciata, o mortalmente trafitta da una spada caotica, dopo aver subito chissà quali atrocità.

Passarono vari mesi e col tempo le ferite del corpo di Sertan si rimarginarono completamente, ma altrettanto non fecero quelle del suo animo. L’elfo, tornato a Tur-miniel, aveva ripreso a passeggiare per i lunghi corridoi adorni di statue, ma il suo sguardo si era fatto cupo, sperduto in chissà quali tetri pensieri. Nemmeno le bellezze della capitale elfica riuscivano a risollevarlo dalla sua depressione e negli ultimi tempi aveva cominciato a manifestare una forte intolleranza verso gli umani: tutto l’interesse che nutriva per questa razza si era trasformato in irritazione, tanto che anche il più semplice contatto fisico con loro lo infastidiva terribilmente.

Nel frattempo dal sud di Elea arrivavano terribili notizie che parlavano di giganteschi guerrieri, di bestie immonde e di elfi corrotti: l’armata del Caos, rimasta sopita per più di un millennio si stava infine risvegliando.
L’Impero Elfico non aveva più scuse o false speranze alle quali aggrapparsi per non dover affrontare l’angosciante verità.
In quei giorni la capitale era in tumulto, le notizie si avvicendavano l’una all’altra e tutti in cuor loro sapevano che le truppe caotiche, nonostante per il momento si trovassero all’altro capo di Elea, avrebbero puntato lì, a Tur-miniel, nel cuore dell’Impero, e non si sarebbero date pace fino a che anche l’ultimo edificio non fosse stato distrutto, profanato e divorato dal fuoco.

In uno di quei giorni tumultuosi, circa due anni fa, mi ritrovai anche io a passeggiare per i corridoi adorni di opere d’arte del palazzo dei Twilight: stavo cercando Sertan per consegnarli un libro di poesie da me scritte, nella speranza di ridestarlo dal suo infelice stato con l’amore per i versi che nutriva sin da piccolo.
Non mi stupii affatto quando lo trovai seduto in terra davanti alla statua di Elros, aveva gli occhi chiusi e sembrava completamente assorto nei suoi pensieri; non si accorse di me, ed io mi fermai ad osservarlo.
Improvvisamente si alzò in piedi, e percorse il corridoio a passi decisi. Mi passò accanto, salutandomi a malapena con un rapido gesto della mano e quando tentai di fermarlo mi sfuggì, dicendomi che aveva urgenza di parlare con suo padre.

Per ore i due parlarono, chiusi nelle stanze di Lord Alanos, e quando Sertan finalmente uscì aveva negli occhi uno sguardo nuovo, lo sguardo determinato di chi ha deciso di non lasciarsi trascinare dal proprio destino, ma di ricominciare a forgiarlo con le proprie mani.
Presto anche il resto della famiglia, me compreso, venne a conoscenza di ciò che si erano detti: Sertan era intenzionato a partire, con lo scopo di unirsi all’Esercito Imperiale. Il padre aveva tentato di dissuaderlo dal seguire questa strada, ma i suoi tentativi erano stati vani e Sertan sembrava deciso come mai prima d’ora.
Questa nuova prospettiva sembrò ridargli vitalità e fiducia in se stesso, qualità che da tempo gli mancavano. Nei giorni seguenti riprese ad allenarsi con il maestro Felanor e nel tempo libero lesse anche il libro che io gli avevo portato.
Nel frattempo, per ordine di Lord Twilight, i migliori fabbri elfici si erano messi all’opera, nel tentativo di creare un’armatura che nessuna arma potesse scalfire.

Passò un mese, ed infine Sertan lasciò la sua casa per andare a servire tra i valorosi guerrieri dell’Esercito Imperiale.
Il giorno della sua partenza suo padre gli diede in dono una spada e uno scudo, due preziosi cimeli di famiglia appartenuti a Elros in persona, augurandogli di combattere con onore come fece il suo antenato. Sia la spada che lo scudo erano stati riforgiati ed ora, dopo mille anni, tornavano di nuovo a splendere come quando Elros li impugnava in battaglia.
Sertan prese in mano la spada: era un’arma bellissima e di ottima fattura, ma troppo pesante perché il suo braccio riuscisse a usarla agevolmente in battaglia. Nonostante questo la prese e se la legò alla vita, dicendo che, pur di non rinunciare all’onore di usare una simile arma in battaglia, l’avrebbe impugnata con entrambe le mani, rinunciando allo scudo.
Dopo aver raccomandato la sicurezza dei propri cari nelle mani del maestro Felanor, l’elfo salì a cavallo e lasciò la casa natia in direzione di una nuova e incerta vita.

Sono passati ormai due anni da quel giorno, e la guerra che tanto temevamo è diventata una realtà.
Ogni tanto riceviamo una lettera dal nostro Sertan, e così, nel saperlo ancora vivo, il nostro cuore tira un sospiro e si libera per pochi attimi dall’apprensione. Nelle sue lettere ci parla della vita nell’esercito, in cui ha assunto il grado di Comandante e in cui ha ritrovato i suoi cugini, Derden e Mote Vonsen. Spesso ci racconta di gloriose vittorie e altrettanto spesso, purtroppo, di terribili sconfitte. Ci dice che sono tempi duri per l’esercito, ma anche che non importa chi siano i nemici, né quanti siano o quanto tempo ci vorrà: questa guerra sarà infine vinta, perché questo è il volere della Grande Madre Diira, e finchè anche un solo elfo continuerà a credere nella vittoria, lei lo guiderà persino attraverso le tenebre più profonde.

Hirluin Senarim,
amico di famiglia e redattore delle cronache dei Twilight



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