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ELFI - Vilbrand Leiram ( da quando nacque alla sua morte...)

Ultimo Aggiornamento: 07/02/2004 21:04
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07/02/2004 21:04
 
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Memorie di un assassino

Il vento soffiava forte fuori.
La neve, portata da raffiche sferzanti sul volto, rendeva una tortura anche uscire per attraversare la strada da una baita all’altra.
Con i denti digrignati per il fastidio, Vilbrand Leiram attraversava la strada, diretto alla taverna.
Si aggrappò disperatamente alla maniglia e cominciò a scuoterla furiosamente come un predatore con la preda in bocca, con la neve che gli entrava nel colletto nonostante il cospicuo bavero di pellicciotto e sibilando fra i denti “ e dai, e dai…”.
Con uno schianto secco il legno cedette e la porta di legno massello ruotò sui cardini cigolanti e schiuse il suo uscio all’avventore elfico, oramai congelato fino al midollo.

Il tepore del locale lo accolse come un abbraccio gentile, mentre la porta si richiudeva alle sue spalle per il vento. Fiocchi di neve giocavano a rincorrersi nell’aria ai suoi piedi, mentre precipitavano sospinti dall’ultima brezzolina di vento.

Mentalmente, fece lo sforzo di comandare alle sue gambe di muoversi verso il solito angoletto vicino al camino e dopo pochi secondi gli ubbidirono, benché le sentisse distanti e lontane.

“Buonasera, messer Leiram. Il solito tavolo vicino al camino? Non vi abituerete mai, eh? Ehehehe”.
Era conosciuto anche in questa parte del continente, anche in questo freddo e sperduto paesino di montagna.
Col lavoro che faceva, viaggiare era diventata una priorità, gli permetteva di vedere tanti posti e continuare i suoi studi, così da poter mantenere viva la sua posizione di copertura..
Già, non lo si sarebbe detto un esperto sicario di sua altezza Imhrail, Imperatore di Elea, in missione in incognito tra quei monti sperduti.

Il bicchiere con l’idromele arrivò tintinnando sul tavolo.
Un sorso e il freddo fu scacciato un po’ di più dalle ossa. Una seconda sorsata per rilassarsi. E un'altra per inebriarsi.
Si appoggiò con la schiena al muro, lasciandosi andare nei ricordi, per un po’, cullandosi nel mare della sua memoria, che tanto vide e a tante cose assistette...

Ogni tanto gli succedeva di ripensare a come era cominciata tutta quella storia.
I giorni di Tur Miniel della sua fanciullezza gli sembravano così lontani ed indistinti, tanto tanto addietro nel tempo da fargli credere che fosse stata la vita di un suo avo.
Vilbrand era un nobile elfo, rampollo di una famiglia residente a Palazzo nella capitale elfica; cresciuto, ma non trattenuto, nei palazzi, passava le sue giornate a vagare per l’isola, interessato alla natura, esplorando e guardando la costa di Elea, lontano.
Per il fatto che trascorreva più tempo ai pascoli che a palazzo, era riuscito a non assorbire la melassa altezzosa tipica dei diplomatici e delle figure nobili locali.
Appena gliene fu data l’occasione, con la scusa di voler esplorare il territorio per diventare uno studioso della natura, lasciò isola, genitori e palazzo e con un po’ di soldi in tasca e tante speranze, partì alla volta del Ducato di Ywata, per poi potersi addentrare maggiormente nel cuore del continente.
Viaggiò da un regno all’altro, sia da quelli in cui la sua lettera di presentazione era riconosciuta, sia per quelli in cui la sua razza era un po’ meno tollerata, tanto meno il suo lignaggio, badando bene di tenersi per sè certe cose.

Una prosperosa e giovane ragazza umana venne a prendergli il bicchiere dal tavolo. Era molto bella e nel fiore degli anni. Chissà che vita avrà fatto qua su?
Mentre si chinava per prendere il boccale, l’elfo non poté fare a meno di notare il contenuto della sua scollatura, cosa della quale lei si accorse immediatamente, esperta d’uomini, e che ricambiò con un civettuolo sorriso.
Colto in flagrante e oltremodo imbarazzato, Vilbrand abbassò lo sguardo sul tavolo e poi, assunse una posa meditativa, fissando il vuoto fuori dalla finestra.
Delusa, la ragazza voltò le spalle e ritornò a sbrigare le sue faccende.

“Ogni volta sempre la stessa storia, dannazione… quando avrò il coraggio di guardare una ragazza in faccia? Vabbè che non ho avuto molte occasioni in vita mia, quelle del reggimento del comandante Vonsen… alcune saranno pure state carine, ma, o non mi si filavano, o erano dei maschiacci.. donne soldato.. per Diira, se non sono femminili, peggio che degli uomini travestiti, eh?” rise tra se e se.
In effetti era dura fare l’eroe, a dispetto di quanto potesse essere esaltante visto da fuori.
Poche possibilità di farsi una propria vita.
Tanti rischi.
Una vita solitaria.
Ma in fondo và così il mondo. Quel Vonsen, ad esempio. Erano entrati sotto le armi assieme, eppure lui ora era il braccio destro di Gil Galad, il secondo del Generale Supremo Aska dell’Esercito Imperiale Elfico; comandava su quasi tutto e tutti con quasi lo stesso potere del suo superiore, mentre invece a Vil era toccata la gloria e la fama. E il dover rischiare la vita in continuazione alla stregua di un soldato semplice di fanteria… che divertimento, eh?
Oramai, la sua fama lo precedeva, non era più una persona, era diventata una figura.
Piatto, a due dimensioni, un quadro, un burro spalmato sul troppo pane; un eroe nazionale, certo, rispettato dagli ammiratori e temuto dai nemici, ovvio, ed orribilmente solo… ma questo non è ovvio, manco per il cazzo, non c’è scritto sul contratto, oppure c’è scritto in piccolo e non lo puoi leggere, la luce di una sfavillante carriera a fare i lavori sporchi dell’Impero copre completamente la fregatura di tutta la faccenda…
Si fottessero tutti loro, la guerra, il prestigio e le missioni segrete a Città-Dello-Sperduto-Fra-Le-Montagne-Con-I-Lupi-E-Il-resto… ma qualcuno dovrà pure farlo, no?
Tutto quello che gli rimaneva oramai era la gloria e i suoi studi. Oltre a quello che aveva imparato sui campi di battaglia…

Guardando ancora attraverso la sala maestra dell’osteria, si rese conto di quanti umani e poche altre creature de altre razze (anzi, proprio zero!) popolassero l’ambiente.
Quanto avrebbe potuto vivere ciascuno di loro? 50 anni? 70? 100 in caso di una vita proprio tranquilla? Bruscolini, in confronto alla sua. Tutte le loro vite sommate insieme, tutte le vite del continente sommate insieme non sarebbero bastate a eguagliare un milionesimo della sua potenziale durata… l’Eterno. In fin dei conti era simile a un dio, lui, no?
Era forse per questo che doveva assolvere al suo ruolo? Per essere il braccio fisico di un dio che toglieva la vita sui campi di battaglia?
Come invidiava i tiratori con l’arco. Loro miravano ad un puntino e scoccavano. A lui toccava guardare negli occhi la sua vittima, veramente da vicino.
Un assassino, un sicario. Che cosa resta della gloria della razza suprema di Gaunis? Ecco a voi il Migliore tra i supremi, l’Eroe dell’Impero: Vilbrand Leiram, l’assassino.
Una persona così temibile e famosa da non aver avuto nemmeno il tempo di trovarsi una ragazza e portarsela a letto amandola come avrebbe voluto!!! Niente figli! Niente famiglia! Ma valeva tutto questo gioco, la candela?
Certo, col carattere che per fortuna aveva non è che fosse proprio inavvicinabile: cmq, riusciva simpatico alla maggior parte dei suoi commilitoni (fuorchè alle commilitone, ehehe), e persino il suo Vice, Gil Galad (ci aveva combattuto un paio di volte a fianco) lo riteneva un valido elemento, nonostante fosse un rompiscatole pieno di pretese e un capriccioso sottoposto che di obbedire agli schemi mentali altrui non aveva nessuna voglia.
Non era meglio stare a casa a fare il nobilotto e filosofeggiare nel suo studio?
No, proprio il naturalista doveva fare…

Addentrandosi sempre più nel cuore di Elea, alla ricerca di culture non ancora riportate sui libri, un giorno Vilbrand si imbattè in ciò che avrebbe condizionato la sua vita per sempre: la tribù degli elfi selvaggi danzatori.
Questa particolare razza di elfi selvaggi discendeva dagli quelli che tanti anni prima si erano scissi dall’Impero per ritirarsi a vita a contatto con la natura.
La loro civiltà prettamente tribale aveva talmente impressionato la mente del nobile elfo che quest’ultimo decise di rimanere con loro per studiarli meglio.
Col tempo la loro cultura lo contagiò, e, benchè non fosse uno della schiatta, era loro simpatico, così curiosamente diverso, nei modi e nei lineamenti, e gli permettevano di stare attorno al fuoco la sera in loro compagnia.
Passavano le stagioni; quattro volte Diira nel cielo mostrò la sua faccia piena. Oramai Vilbrand aveva perso la nozione del tempo. Quella vita fuori dal mondo l’aveva completamente risucchiato.
Era quello che aveva sempre sognato. Perché non farne parte?
La sera si recò dal Gran Capo e gli chiese se potesse essere ammesso nella sua tribù… a costo di superare qualunque prova.
Per tutta risposta l’elfo lo guardò strano e poi esclamò: “Non puoi. Non sei del nostro sangue. E poi ti manca la grazia. A questo punto però, non puoi più rimanere con noi; soffriresti per la tua diversità e per la tua impossibilità di essere realmente parte di noi. Và lontano e dimenticaci”.
Mesto, con lo sguardo basso, sospirò: “Non è proprio possibile?”
“Anche se ti prendessimo con noi, e sarebbe la prima volta da sempre, non saresti ancora maturo. Và lontano e allenati. Torna quando sarai pronto. E’ stato un piacere per noi averti vicino”.

Se quel maledetto lo avesse preso con se... quante cose sarebbero cambiate! Quante sarebbero state diverse!
Un agilità come quella di quegli elfi libellula. E dove trovare un posto per addestrarsi così?
Ritornato alla civiltà, apprese molti dei cambiamenti che in sua assenza erano maturati. La guerra oramai incombente, l’equilibrio rotto e una nuova era a venire.
E in quel momento, il Fato diede il suo colpo alla ruota. Apprese una sera per caso, ad una taverna, di una fantomatica gilda di guerrieri scelti, aperta solo ai nobili, che, più agili di un battito di palpebre nell’uccisione, e altrettanto silenziosi, godevano di fama di onnipotenza e onnipresenza.
Era la sua chance, aveva una possibilità!
Una volta a palazzo, grazie ai suoi agganci, gli fu facile entrare in gilda. E con la sua determinazione, uscirne….
Il resto è storia, oramai…
Già, solo storia vecchia…
“Ma ora basta coi ricordi, ho una missione da compiere tra queste montagne” si disse, mentre si alzava per prepararsi ad uscire ”e il caro Ultimo Grigiovento mi aspetta, o meglio, il suo collo mi aspetta. Un'altra testa pregiata da aggiungere alla collezione…”



[Modificato da Kudrak 08/03/2004 3.31]


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